Dimissioni volontarie alle stelle: cosa sta succedendo?

Ridefinire un panorama socio–culturale nuovo è indispensabile ed ineluttabilmente demandato alle responsabilità di ciascuno, in quanto, con la pandemia si sono “scollati” equilibri forse già precari e rimescolate le “priorità”.

Assistere ad un cambiamento epocale di tal portata significa attivare modalità di intervento che tengano conto, non più delle sole opportunità, ma della quantificazione delle possibilità.

Ed è proprio a partire da questo semplice ma doveroso ragionamento che è opportuno riconsiderare l’Essere Umano alla luce di queste importanti modificazioni.

Con la pandemia è come se un vulcano, considerato da tutti ormai inattivo, si fosse improvvisamente risvegliato, coprendo tutto di lava e magma. Lo scenario è apocalittico: molto è andato distrutto, molto si è perso, ma riuscire a ripensarsi ed agire, tenendo conto di tutto ciò, assume connotazioni e rilevanze che fino a qualche anno fa, consideravamo essere sopite.   

E se la priorità intrinseca era la realizzazione personale attraverso il lavoro, oggi non sembra più così. Essere stati deprivati della socialità, delle interazioni e degli affetti (scontati un tempo) ha invertito la piramide delle priorità, facendo così “cadere dal podio” il diritto/ dovere al lavoro.

Da nord a sud il dato non lascia spazio agli equivoci: nel secondo trimestre del 2021 ci sono state quasi 500.000 dimissioni volontarie, un’impennata del +85% rispetto al 2020. Quali sono, però, le motivazioni che spingono i lavoratori e le lavoratrici a lasciare l’occupazione? L’incapacità a rispettare e sottostare alle regole lavorative, disporre di molto tempo libero da dedicare alle relazioni sociali ed alle amicizie, la famiglia. Se da un lato questo parrebbe essere un bene in quanto il deragliamento emotivo ci stava portando a vivere nel più bieco individualismo e nella solitudine, dall’altro l’imponente inversione di rotta, rischia nel breve termine, di farci piombare nella più abissale crisi economica mai vista dopo quella del post dopoguerra.

È innegabile che riuscire a ricompattare energie, strumenti, risorse sia interne che esterne, che possano restituire progettualità (sia nel presente che nel futuro) comporta uno sforzo ancora più imponente per tutti quegli imprenditori che gioco forza si sono trovati a fare i conti con la “tempesta perfetta” covid-19 e ad essa sono sopravvissuti. Oltre all’essere ed al sentirsi miracolati, è opportuno fare, non solo la conta dei danni, ma avere chiara la nuova realtà che si fa strada davanti ai nostri occhi.

La paura che abbiamo provato durante la pandemia, e tutti i sentimenti di ansia ed angoscia che attorno ad essa hanno ruotato, ci hanno reso più fragili, più sensibili, meno inclini alla critica e/o al rimprovero.

Perciò un cambio di passo diventa necessario, così come lo è la visione che abbiamo del dipendente. Fragile ed impaurito, tanto quanto li titolare, ha necessità di vivere il luogo di lavoro non come una minaccia, non come un attacco alla sua persona, ma come quel luogo in grado di accoglierlo in tutta la sua interezza, anche quando sbaglia. Ed è così che anche  l’errore assume un nuovo significato, diventando occasione Unica di cambiamento che, se guardato da un’altra prospettiva, non genera più un rallentamento, ma apre prospettive (sia tecniche che operative) del tutto nuove.

Dare “tutto al dipendente” oppure “abbiamo sempre fatto così” sono affermazioni che, oltre a non avere più alcun valore “semantico” non sono più condivisibili. Di fatto nel tutto non era compreso l’ Essere Persona

È vero, non possiamo scotomizzare lo spiacevole ricordo che tutti noi conserviamo della pandemia, ma oggi non è più possibile inneggiare al benessere senza attivare realmente tutti quei sistemi che tendano al suo raggiungimento. Se i dipendenti non stanno bene nel loro luogo di lavoro, allora sarebbe forse il caso di porsi delle domande e riprogrammare gli asset aziendali.

Comprendere che le problematiche sono di tipo “endogeno” sarebbe già un primo grande passo. Il secondo “attivarsi per conoscerne la natura” ed il terzo “risolverle”. Come? Il processo potrebbe essere più semplice di quanto si creda se, scientemente, le aziende riuscissero a farsi affiancare nell’attività di “problem solving”.

Recuperare, in primis i datori di lavoro, una rinnovata motivazione, potrebbe arginare il grande “disastro economico” che stiamo giorno per giorno contribuendo ad alimentare.

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