Il progetto Frena il Bullo è tornato in Molise per continuare quel processo di sensibilizzazione verso le tematiche del bullismo e del cyberbullismo, Una grande partecipazione da parte dei ragazzi e delle associazioni locali che hanno voluto presenziare numerose all’evento che come ogni volta è stato la base per capire meglio questo fenomeno esploso negli ultimi anni.

Si è svolto il 29 maggio scorso l’incontro “Giù le mani del mio cuore” presso il teatro comunale “Fulvio” di Guglionesi, in provincia di Campobasso. L’evento che rientra all’interno del progetto Frena il Bullo della Fondazione Asso.Safe, oltre al patrocinio del Senato, della Camera dei Deputati, della Regione Veneto, dei Comuni di Padova e di Santa Maria di Sala (VE), è stato patrocinato anche dalla Regione Molise, dal Comune di Guglionesi e dal Sae 112 onlus. Organizzato con la collaborazione del S.I.A.P. (Sindacato Italiano Appartenenti alla Polizia di Stato), da A.D.L.I. (Associazione Datori di Lavoro Italiani) e da Passaggi a NordEst, l’incontro ha visto come fruitori dell’evento alcune delegazioni di allievi delle scuole sia di Termoli che di Guglionesi.  Come in tutti gli incontri di sensibilizzazione, tenuti dal gruppo di lavoro che attivamente porta avanti il progetto Frena il Bullo, anche in questo, si è affrontata la questione del bullismo e del cyberbullismo.  La sensazione avuta e il riscontro ricevuto, sia durante il convegno, sia i feedback successivi, ci hanno messo nelle condizioni di comprendere, ancora di più, se possibile, quanto il supporto delle istituzioni locali (comune, associazioni, consultorio, centro anti bullismo), e delle forze dell’ordine (Polizia e Carabinieri) sia indispensabile affinché i ragazzi abbiamo un’ idea reale e tangibile, quindi non solo narrata da un palcoscenico, che il mondo degli adulti c’è ed è accanto a loro per supportarli. Durante l’incontro sia gli adulti presenti che i ragazzi sono stati e si sono sentiti coinvolti in un crescendo di emozioni che ha scosso le coscienze di tutti.  In quell’occasione, in quella sala di teatro, siamo riusciti a togliere le maschere, quelle che indossiamo, quelle che pensiamo possano metterci al riparo da qualsiasi responsabilità. Sono state poste in fila le questioni, sono stati raccontati i fatti di cronaca che, sotto l’etichetta del “bullismo”, continuano, inesorabilmente a compiersi.

Abbiamo parlato di violenza fisica, di violenza psicologica, di botte, di vessazioni, di derisioni, di isolamento, di annientamento, di esclusione, di paura, di morte, di deumanizzazione. E quando si parla di questo lo scenario che si palesa, improvvisante, davanti ai nostri occhi, è desolante. Ma questo non è bullismo!

La totale impreparazione davanti ad eventi dall’impatto così devastante, i cui autori sono ragazzi e bambini, ci hanno portato a chiamarli “bullismo”.  Abbiamo esacerbato tutte le emozioni e le azioni primordiali, utilizzandole come modalità elettive per ottenere un vantaggio immediato. È come se fossimo riusciti a cancellare secoli di lotta per la “civiltà”. L’educazione è il prodotto di comportamenti e sentimenti che, seppur innati, si modulano e si strutturano sulla base dell’apprendimento.

Si apprende guardando le persone che sono vicino a noi, che ci proteggono, per cui nutriamo un sentimento, di cui ci fidiamo. I primi con cui tutto ciò si instaura in maniera del tutto naturale sono i genitori, e solo successivamente, la società. Il “reale” creato dai genitori ai quali le generazioni di oggi guardano, è fatto di apparenza, di potere (nel senso di ottenere nell’immediato ciò che si vuole, inebetendo così la capacità di desiderare), di sentimenti effimeri, di mancanza di progettualità (mancando il desiderio non ci può essere progettazione), di costruzioni identitarie vuote e precarie, di connessioni e contatti virtuali… riuscendo, in tutto ciò, a rispondere ai bisogni di chi si sta formando in maniera del tutto patologica. Ma seppur in maniera del tutto alterata i bambini e i ragazzi continuano a chiedere sentirsi amati da qualcuno. La ricerca allora, per loro, è una corsa a riempire vuoti, con le modalità che hanno appreso: qualcuno lo farà con la violenza, con la rabbia, con tutta la forza distruttiva che ha dentro e che rivolgerà contro qualcun altro perché è l’unico modo che ha trovato per garantirsi il senso di realtà, per poter sentire i confini e la finitezza del suo essere, per evitare la completa frammentazione. Qualcun altro invece reagirà in maniera opposta, subirà le prepotenze, subirà le ingiurie, subirà le cattiverie degli altri, probabilmente perché lo ha appreso o perché il senso di colpa e la vergogna per essere diverso, e la rabbia per la sua “non uguaglianza” lo porteranno a convincersi che tutte quelle angherie, in fondo, le merita. Il dolore, però, è devastante, l’isolamento e la mancanza di riconoscimento, affetto e sostegno, lo condurranno a farsi del male, a trovare nella droga o nell’alcol, un modo per non pensare al dolore di cui sono perennemente pervasi e che li attaglia. A volte, però, quando il dolore diventa un macigno insopportabile e non lascia più spazio alla seppur precaria capacità di pensiero, l’unica via d’uscita per porre fine al dolore rimane quella di eliminarsi, togliersi da mondo, annientarsi, morire. E neanche al “mistero della morte” diamo dignità, anzi ci limitiamo ad osservare e a cercare di addossare la colpa a qualcosa o a qualcuno. Ma è una ricerca vana, a mio avviso, perché non c’è un colpevole, non uno solo, non un gruppo, siamo tutti “assassini” che con il nostro silenzio, la nostra indifferenza e il nostro menefreghismo, abbiamo permesso alle Parche di recidere il filo della Vita di qualcuno.  Abbiamo relegato nell’angolo più buio della nostra coscienza il Valore che hanno la Vita e la Morte, in fondo, nonostante ciò che accade “the show must go on”.

Fanno accapponare la pelle gli scimmiottamenti di questi “opinionisti televisivi” che non fanno altro che cementare la convinzione, in chi guarda, che solo attraverso le urla, le offese gratuite, la maleducazione, le parolacce si possa affermare la “bontà del loro pensiero”. E a cosa serve allora interrogarsi, porsi in prima linea, non per apparire, ma per lottare, per far fare in modo che si possa entrare in ascolto di quei bisogni, di quelle necessità di quell’essere che è l’umano?

Serve finché esseri umani come noi e come tanti altri, avranno il coraggio di ascoltare, avranno il coraggio di parlare, avranno la forza di portare avanti un pensiero che se anche non condiviso dal “mondo globale”, nasconde in sé tutta la potenza e la forza per poter attuare un cambiamento.

E quando si sente questo bisogno è necessario attivarsi, è necessario applicare le punizioni per i reati commessi, perché deve passare il messaggio che ad ogni azione corrisponde una reazione e soprattutto ciò che oggi capita a me, domani potrebbe capitare a te.  Lavoriamo perché non capiti a nessuno.

 

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